Peso | 0,20 kg |
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Dimensioni | 14 × 21 cm |
Rilegatura | Brossura |
Anno di pubblicazione | 2022 |
Pagine | 162 |
ISBN | 9788864647173 |
Nunc est bibendum
di Antonio De Prisco e Giuseppe Vivacqua
Nel tardo pomeriggio di una nevosa e gelida antivigilia di Natale del 1952, a Montegiordano Centro, piccolo borgo dell’Alto Ionio cosentino, un giovane ventenne, per risolvere un grave problema di famiglia, lo gira in lungo e in largo fin nel cuore della notte. Il dettagliato racconto della sua singolare esperienza svela al lettore la varia umanità che popolava questo paesino e la vita notturna che lo animava.
Sara e Francescantonio Franco (proprietario verificato) –
Abbiamo letto con attenzione e tanta curiosità, dettate dalla voglia di conoscere le vicissitudini dei protagonisti del racconto ambientato a Montegiordano, l’interessante romanzo che Antonio De Prisco e Giuseppe Vivacqua hanno dato alle stampe alla fine dello scorso anno.
Il racconto si snoda con una grande linearità nel narrare una storia del nostro profondo Sud. Fin dalle prime pagine il lettore viene catturato dall’accattivante modo di descrivere le caratteristiche dei luoghi e dei personaggi nei minimi particolari, con un ritmo ed una cadenza talvolta musicale e in uno stile fluido ed elegante, il cui lessico è arricchito da qualche sentenziosa espressione latina, fatta pronunciare, non a caso, da uno dei personaggi del romanzo, il parroco del paese.
Montegiordano, perla ionica incastonata in alta collina tra il monte Soprano e il mar Jonio, tra i fasti magnogreci dell’antica Sibaris e le rovine millenarie dell’anfiteatro metapontino, è il luogo in cui si svolge l’azione, costituita dalla quotidianità della gente montegiordanese che, nel piccolo, ben racchiude virtù e vizi dell’umanità intera. I vari personaggi, che si alternano sulla scena nel racconto di questa paradossale vicenda dell’antivigilia di un lontano Natale dei primi anni Cinquanta del secolo scorso, incarnano i sette vizi capitali, rivisitati ed attribuiti a ciascuno di loro con un tale realismo da farne emergere, già a prima vista, le singole differenze nel modo di pensare e di comportarsi di ciascuno di loro, diventando così materia di riflessione per il lettore.
Siamo nel dopoguerra, il paese ha vissuto solo da lontano la tragedia delle distruzioni belliche, ma le condizioni della popolazione sono quelle della miseria, dell’ignoranza, di una situazione strutturale veramente a limite: non c’è ancora la corrente elettrica, le strade sono sterrate, l’acqua viene erogata da fontane limitrofe al centro abitato, il lavoro è quello tipico della campagna, i collegamenti sono garantiti con gli asini e i muli, tranne “u pustagh” che faceva servizio per collegare paese e marina, l’assistenza sanitaria nazionale ancora inesistente e per questo essa viene demandata in parte alle attività caritatevoli dei Comuni con le liste dei poveri ed in parte alla tutela assicurativa di pochi lavoratori attraverso Enti mutualistici, che spesso però non garantiscono alcuna assistenza farmaceutica.
Ed è proprio da questo deprimente contesto viene tratto lo spunto per raccontare la storia che si dipana attraverso i vicoli del piccolo borgo motegiordanese in un tempo che racchiude tardo pomeriggio, serata e nottata del lontano 23 dicembre del 1952. L’impellente necessità di trovare i soldi necessari per comprare le medicine alla povera mamma ammalata portano in una notte gelida e nevosa Mimì, il protagonista del racconto, a ripercorrere in lungo e in largo le vie del paese alla ricerca di compaesani che potrebbero aiutarlo e che, però, adducendo speciosi pretesti, si rifiutano di venire incontro alle necessità di un giovane lavoratore, onesto, amico di tutti e sempre disponibile ad aiutare chi è in difficoltà, che ha lasciato il caldo del focolare domestico e che si è messo in giro sotto una copiosa nevicata per procurarsi la somma necessaria per l’acquisto delle medicine vitali per la sopravvivenza della povera madre, rimasta vedova in giovane età e gravemente malata.
E così, in preda allo sconforto più profondo, Mimì vaga per il paese nel gelido buio della notte, mentre si succedono fatti e vicissitudini che, se da un lato servono a delineare il profilo di alcune tipologie comportamentali, dall’altro richiamano alcune delle più belle e significative tradizioni collettive montegiordanesi, ancora vive al tempo della storia narrata: la fila per accaparrarsi un litro di vino della Sicilia alla cantina Corrado, che costituiva “u funnico” più importante tra i tanti dislocati per i vicoli; “u zippone” della vigilia dell’anno, che l’innamorato faceva trovare davanti casa della morosa per dichiarare ufficialmente il suo amore ai familiari della ragazza amata; i brindisi; il bicchiere della staffa; i soprannomi per riconoscere e distinguere le persone; la morra e la passatella tra amici; gli incontri nelle cantine; le superstizioni e i riti propiziatori tipici del piccolo borgo.
Il romanzo finisce così per rappresentare anche un prezioso documento di storia antropologica, che riguarda da vicino i montegiordanesi e contribuisce a fornire conoscenze sull’ambiente in cui oggi essi vivono, a riflettere sulla loro identità, a riappropriarsi del passato in modo da non dimenticare i tanti sacrifici degli antenati e a mettere in risalto storie e tradizioni linguistiche, artistiche, etnografiche che vale la pena di richiamare alla memoria.
Le pagine finali del romanzo realizzano “un colpo di teatro”, bello ed inatteso per come si stavano svolgendo i fatti, perché si verifica un vero e proprio miracolo di Natale con la redenzione collettiva di tutti i protagonisti del racconto che si ritrovano, inaspettatamente, tutti a casa di Mimì per vivere assieme la Vigilia di Natale, spogliandosi delle proprie cattive abitudini ed indossando i panni di coloro che si riconoscono cittadini di un ambiente sano, modesto e sincero, dove i valori genuini, relativi all’amore per la famiglia, per la sana condotta personale e collettiva, per un modo salutare di affrontare la vita, improntato all’amicizia, alla solidarietà, alla condivisione dei sacrifici, della miseria e della atavica sopportazione di condizioni al limite della vivibilità garantiscono la propria appartenenza ad una comunità stabile e ben assortita, che vive un territorio che con il duro lavoro quotidiano di tutti i suoi abitanti si adegua alle logiche e ai bisogni di tutti, nessuno escluso.
Piace concludere questa nota di lettura citando l’indole e il ruolo della donna montegiordanese, nel contesto del romanzo ben rappresentato dalla signora Maria, la mamma di Mimì, donna fortemente provata dalle vicissitudini della vita, sempre rispettosa degli altri, forte ed appassionata, discreta ma risoluta, immensamente addolorata per la morte del marito e per questo a lutto perenne, che, come “canna al vento” di deleddiana memoria, si piega senza mai spezzarsi ed è sempre pronta ad affrontare le avversità quotidiane senza alcun compromesso, con dignità, saggezza e tanta benevolenza nei confronti di tutti. E’ lei, in fondo, che riesce a riunire intorno alla tavola imbandita con “le nove cose” natalizie (a cominciare dal piatto tipico montegiordanese: pasta di casa, possibilmente tagliatelle, con la mollica e il sugo di baccalà) tutti i personaggi della storia, per un finale positivo e di augurio per se stessi e per le future generazioni.
Giuseppe Chiecchi (proprietario verificato) –
Verrebbe da dire: in principio era Manzoni, con il suo escamotage del ‘dilavato e graffiato autografo’, qui diventato un mucchio di fogli raccolti in un contenitore di cartone, parvente per un lembo al di sotto una vecchia e sgangherata madia. Analogo è pure il doppio fine dell’espediente: ridurre la responsabilità degli autori, trasformati in copisti, e oggettivare la rappresentazione degli eventi narrati mediante la rappresentazione del loro fortuito ritrovamento. Forse c’è da aggiungere un terzo scopo, poiché la giacenza trascurata dell’autografo e la casualità della sua scoperta sono indizi della fragilità dell’essere, sospeso con esile crine sul vuoto della dimenticanza.
Ma poi c’è dell’altro, poiché mediante un ingegnoso ingranaggio gli autori, Antonio e Giuseppe, rispettivamente «un anziano professore universitario che villeggiava a Montegiordano e un giovane ingegnere del posto» (p. 7), innestano se stessi in medias res, cioè nello svolgersi controcorrente di una linea genealogica rianimata dal ritrovamento.
Mimì è il nome che ci guida verso gli antenati e dagli antenati a un oltre materno e paterno sempre meno definibile, insomma verso l’origine dell’Io sia di Mimì protagonista del casuale ritrovamento, sia dell’Io di Mimì protagonista della storia, entrambi sussunti nell’identico flusso genealogico, entrambi salvati dalla morte per beneficio della scrittura e soddisfatti nel bisogno identitario che è di ogni uomo. Il nome nei luoghi antichi è essenziale e ha il valore dello specchio, la potenza dell’auto riconoscimento e della riflessione.
La storia concerne il nonno di Mimì più giovane, anch’egli a sua volta Mimì, come il nonno paterno, e di Maria sua madre vedova, afflitta da una cronica, debilitante, emicrania. Quel flusso genealogico prima evocato sembra essere giunto al capolinea, al punto cioè del suo esaurimento all’interno del rapporto madre-figlio, asfissiato in un presente senza via d’uscita, senza futuro.
La trama si diparte dalla malattia della madre e si svolge nel tempo breve dell’antivigilia di Natale, trascorsa da Mimì alla vana ricerca dei soldi necessari per procurare alla madre le medicine. Nella coincidenza del vagare serotino e notturno di Mimì si manifesta – mi sembra – la originalità del racconto, che si svolge nel reticolo spaziale di Montegiordano, dunque nella topografia stretta del borgo, che tuttavia viene negata dalla oscurità gelida, cosicché a mostrarsi distintamente sono interni e personaggi, illuminati e isolati, per così dire, dalla luce fendente dell’occhio di bue e registrati nelle poche parole che ciascuno pronuncia e in qualche articolazione, in qualche movimento del corpo.
Ancora una volta il viaggio fornisce lo schema del racconto, ma ciò che si constata è la declinazione originale dello schema, dato che del viaggio di Mimì tra i vicoli di Montegiordano si conoscono soprattutto le stazioni, i punti in cui il moto si sospende e la conoscenza spaziale si fa cognizione ed esperienza interiore, umana ed esistenziale. Allora Montegiordano diventa corpus infirmum, sezionato nei sette sintomi della sua malattia morale, rilevati da un Mimì sempre respinto, eppure mai imputante, una sorta di Candide cosentino, speranzoso e rassegnato fino alla prostrazione.
Talvolta, nel bel mezzo della lettura si ha l’impressione di stare in un incubo, nel quale ogni sforzo non riesce a produrre movimento alcuno. Il tempo che manca prima della chiusura della farmacia progressivamente si riduce, fino a consumarsi nel fallimento ammorbando con i sensi di colpa la coscienza del figlio, che si sente inutile e isolato nell’angoscia che lo tormenta. Invece, a scongiurare l’esito negativo è il finale a sorpresa, il miracolo di Natale che può avvenire soltanto in un luogo che non è edenico, ma antico, dove la relazione tra gli uomini non è innocente, tuttavia
determinata da rapporti riconoscibili e sprofondati nella memoria di ciascuno e di tutti.
C’è insomma una logica, una ratio nello svolgersi del finale fiabesco, paradossale, di un racconto, che però non è una fiaba e possiede anche le durezze della miseria: la sua temporalità decentrata opera uno spostamento del mondo di Mimì e di Maria da quello presente di ogni lettore. Dalla divergenza originano vari pensieri e diversi sentimenti: lo stupore per l’evento finale e un vago senso di
malinconia, causata dalla sparizione del cronotopo nel quale il miracolo poteva ancora avvenire, con logica e spontanea naturalità.
C’è qualche pennellata folclorica, nella onomastica soprattutto, ma non solo. Forse si poteva insistere, perché pure la lingua è coinvolta sotto ogni aspetto nella trama e ci avrebbe potuto offrire ulteriori particolari sui vincoli di appartenenza, sui legami interni tra gli abitanti di Montegiordano nel tempo-altro del rigido inverno del 1952.
Lascio comunque volentieri ogni vezzo accademico-critico, compreso il diritto presunto di ‘covar le uova nel nido altrui’, per dire al mio amico Antonio: ben fatto! altro modo migliore non c’è per ringraziare il borgo che ti ospita da tanti anni e per appartenervi a pieno titolo. Ciò vale naturalmente per il tuo giovane collega, che oltretutto porta il mio nome.