Rufina Ruffoni è una poetessa ritrovata. Appartiene a quel vasto regno di voci silenziose che spesso passano inosservate nella storia di superficie ma donano l’incanto della profondità, dove attendono tesori sommersi. Ed ogni tesoro desidera essere trovato, non importa quanto tempo debba aspettare. Pare sia una legge di natura, alla quale non si possa sfuggire, una forza di gravità, un punto magnetico, un richiamo affinché risplendano le tonalità complementari, tutte le infinite modulazioni della vita. Per molto tempo Rufina Ruffoni e la sua poesia sono state nel silenzio oppure custodite nella memoria di chi l’ha amata. Un ricordo dunque intimo, delicato, appartato, sacro, qualità che rappresentano anche la personale cifra poetica di Rufina, la sua testimonianza.
Di lei ci rimangono l’edizione della raccolta Sognando un dolce andare (1950), alcune poesie sparse in riviste, il prezioso taccuino autografo ed altri versi inediti, nati negli anni ultimi della sua vita. La sua opera, distillata lungo gli anni, è il racconto della fedeltà alla poesia, la vena d’oro, l’espressione di quella sorgente che davvero è in grado di portare il cambiamento nella propria esistenza anche là dove qualsiasi altra cosa ha fallito. La sua opera è soprattutto il racconto di una sapienza d’amore e proprio la continuità della scrittura, la devozione alla pagina, è il documento che attesta il rischiararsi di questa visione sull’esistenza. Ed è il lascito spirituale, la sua eredità, la perla preziosa per la quale si vende ogni bene pur di possederla.
Rufina, nobildonna veronese nata il 6 giugno del 1908, portava in sé due vocazioni famigliari di grande rilievo. Dalla madre Margherita Lochis ricevette l’educazione musicale ed artistica che discendeva dal celebre violoncellista Alfredo Piatti e dal fine collezionista d’arte Guglielmo Lochis: chi giungeva nelle sognate terre del sud, seguendo le vie del grand tour, sapeva di poter indugiare alla Crocetta di Mozzo, sulle colline bergamasche, per ammirare il San Sebastiano di Raffaello. Dal padre Rienzi Ruffoni raccolse la devozione alla terra che si espresse nei campi, nei prati, nelle fonti, nel giardino, nei roseti, nel viale di cipressi che conduceva alla villa Pavarana, in Valpantena, la valle di tutti gli dèi. La villa Pavarana, nei primi anni del Novecento, fu luogo ospitale, vivo cenacolo, per letterati ed artisti che cercavano nuove ed autentiche possibilità espressive, sostenendosi, trovando ascolto ed ispirazione reciproca. Tra di loro si rilevano i nomi di Lionello Fiumi, Ida e Caterina Vassalini, Guido Trentini, Orazio Pigato, Giuseppe Zancolli, Pino Casarini, Eugenio Prati, Felice Casorati, Pio Semeghini, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis e soprattutto Angelo Zamboni che, giovanissimo, decorò la villa e più tardi eseguì lo stupendo ritratto di Andreina Ruffoni, sorella di Rufina.
La Pavarana si affacciava così al secolo nuovo, esprimendosi secondo l’antica tradizione delle ville, splendida durante i Rinascimento, votata alla contemplazione attiva, ovvero la delibazione estetica accanto alla pratica, la cura e la custodia della bellezza naturale accanto all’operosità del lavoro agricolo. Chi passava dalla Pavarana vi tornava in qualche modo trasformato, nel cuore. Leggere le iscrizioni latine, passeggiare nel suo giardino, fermarsi sulle rive del piccolo lago, guardare le increspature delle onde al passaggio della piccola imbarcazione, era come risvegliare la propria anima, nutrirla, accesa nell’incanto. Le immagini del giardino fiorivano come metafore della vita interiore. Così come ammirare dalla terrazza la città lontana e far rivivere nel verde Chitra, il dramma in un atto di Rabindranth Tagore che celebrava la bellezza nei suoi infiniti accenti. Era davvero il paradiso, il locus amoenus. Per usare un’espressione cara a James Hillman, alla Pavarana si era immersi nel “fare anima”. Ogni immagine naturale della Pavarana riviveva nella scrittura poetica di Rufina, anzi nel suo sguardo poetico, di là dal tempo: sono i giardini, la primavera, la fioritura, la concordia tra le stagioni e la vita dell’uomo ed il desiderio struggente che questo accordo comprenda anche il ritorno della figura amata.
Rufina Ruffoni è anche la figura che più di altre ha percepito il venir meno di quella civiltà, nel volgersi della storia lineare, in un concatenarsi ferreo di cause ed effetti, nel magma di congiunture politiche, economiche e sociali, la storia del nostro Novecento. Fu un dramma, parallelo ad ogni estinguersi di civiltà, di cultura, di animali e di piante che il nostro pianeta ha attraversato. Rufina Ruffoni ha perso tutto. Ogni bene materiale, ogni sostegno, ogni possibilità pratica di vivere con dignità. Si è lasciata andare come per seguire il destino di tutto ciò che era già polvere. Si è aggrappata a ciò che rimaneva della villa Pavarana, più volte profanata dai ladri. Non voleva andarsene dall’amata dimora, anche se ciò significava piano piano languire e morire di stenti. Ma è proprio qui, al limitare del regno di Ade, che avviene la straordinaria rinascita interiore. Tolstoj ricordava che molte sono le cadute e molte le resurrezioni. Ma una è il paradigma di tutta l’esistenza. Ruffina, in fin di vita, venne condotta via dalla Pavarana; accolta in un ambiente sereno ed accudita, poté rinascere. E negli ultimi anni ricominciò a scrivere, rimodulando i cari temi, le care immagini, attraverso uno sguardo mutato. Nei confini di un tempo ben preciso, la Pavarana aveva incarnato l’ideale di armonia e di concordia, bellezza ed amore, che accoglieva naturalmente e comprendeva ogni cosa, ogni sfumatura, ogni contrasto. Ma quell’ideale non si identificava con la Pavarana, non si esauriva in quell’esperienza. Era come una farfalla che per un poco si era posata su quel fiore, in una lunga estate sulle colline della Valpantena. La Pavarana era morta, ma non quel desiderio profondo, non quell’aspirazione, non quella speranza. E staccarsi dalla Pavarana significò per Rufina risvegliare una forza spirituale e ritrovare dentro di sé gli alberi, i corsi d’acqua, i fiori, la villa. L’amore in una comprensione dolcissima. Il paradiso. Ed è questo il suo dono. Come il paniere di frutta ed erbe che in una foto Rufina porgeva sorridente per la festa del raccolto estivo.
Materiali e informazioni provengono dagli archivi della Villa Palazzoli.
Elisabetta Zampini
Elisabetta Zampinivive ed insegna a Verona. Si dedica allo studio della letteratura, in particolare alla poesia italiana fra Otto e Novecento. Insegna Letteratura italiana alla Fondazione Toniolo, collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Scienze della Formazione. Oltre ai saggi su riviste letterarie, ha pubblicato le raccolte poetiche Acqua e Menta (2006), Riverberi (2011) e le monografie Nel grido d’una gioia. La voce di Ida Vassalini, Verona 1891 – Milano 1953 (2013) e Sognando un dolce andare, Rufina Ruffoni: una grande poetessa dimenticata (2015), Premio Fratelli Vassalini 2016 dell’Istituto di Scienze Lettere ed Arti di Venezia. Attualmente sta curando proposte didattiche sulla poesia nell’educazione letteraria per la scuola primaria.